24/07/2019 – S. Charbel Makhluf

Luca 9, 10-17
In quel tempo, al loro ritorno, gli apostoli raccontarono al Signore Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora li prese con sé e si ritirò in disparte, verso una città chiamata Betsàida. Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. […]. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». […] Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

La moltiplicazione dei pani è collocata dall’evangelista dopo un’esperienza di missione dei discepoli, che pare abbia portato buoni frutti e suscitato grande entusiasmo in loro. Proprio nel momento del successo, Gesù prende con sé i suoi e si ritira in disparte con loro. Si tratta di un’esperienza interiore di grande intimità con il Maestro, un dialogo fecondo. È solo questa intimità con il Signore, l’essere con Lui che rende fecondo il nostro discepolato e che fa accorrere le folle, crea comunione e comunità nei luoghi della vita.

La folla, affamata di una parola autentica, prima ancora che di cibo, raggiunge il ritiro di Gesù e dei discepoli, si fa domanda di vita. Nell’ora in cui il giorno inizia a declinare (la stessa ora dell’incontro dei discepoli di Emmaus col Risorto), i discepoli (quelli che erano tornati entusiasti dalla missione e forse pensavano di avere capito tutto) vorrebbero congedare le folle, “scioglierle” – dice il testo greco-, mentre loro compito sarebbe quello di accoglierle e radunarle.

Quante volte nelle nostre comunità siamo frettolosi e mettiamo in secondo piano l’accoglienza in nome di un presunto “primato della Parola”? Siamo davvero fedeli alla Parola, alla missione affidataci dal Signore?

Le parole di Gesù richiamano all’essenza della fede in Dio Padre: “Date voi stessi da mangiare!”.
L’ascolto della Parola non è più importante del pane: il pane è il frutto dell’obbedienza alla Parola. C’è, insomma, da farsi “pane” per gli altri, come Gesù ha fatto sempre nella sua vita e come ci ricorda ogni volta che partecipiamo all’Eucarestia.
Non ci sono calcoli da fare, non c’è da comprare nulla: ci sono da offrire fiduciosamente cinque pani e due pesci, ciò che siamo. Questo dono gratuito, nelle mani di Dio, si fa pienezza di vita per tutti, nessuno escluso.

Ecco il miracolo che rende feconda la vita quotidiana: farsi dono senza riserve, per tutti.
Si conserva il pane (la vita) dandolo e lo si moltiplica dividendolo.

 

In noi si dovrà trovare tutto il bicchiere d’acqua, il cibo per chi ha fame,
tutto il vero cibo per tutti i veri affamati,
tutti i veri cibi e tutti i veri mezzi per distribuirli,
l’alloggio per i senza tetto,
il pellegrinaggio alle carceri ed agli ospedali,
la compassione per le lacrime, quelle che si devono versare insieme
e quelle di cui occorrerebbe eliminare le cause,
l’amicizia per ogni peccatore,
per coloro che sono malvisti,
la capacità di mettersi al livello di tutte le piccolezze, di lasciarsi attrarre da tutto ciò che non conta,
e tutto avrà il suo orientamento, la sua pienezza, nella parola “fraterno”.
Infatti i nostri beni, se diventano i beni degli altri, saranno il segno della nostra vita donata per gli altri,
come assimilata di diritto alla loro, e che, in realtà, non deve più far parte dei nostri interessi… (M. Delbrêl)

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