13/02/2020 – Giovedì, settimana 5ª domenica dopo Epifania

Marco 8,10-21
In quel tempo. Il Signore Gesù salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà. Vennero i farisei e si misero a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla prova. Ma egli sospirò profondamente e disse: «Perché questa generazione chiede un segno? In verità io vi dico: a questa generazione non sarà dato alcun segno». Li lasciò, risalì sulla barca e partì per l’altra riva. Avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un solo pane. Allora egli li ammoniva dicendo: «Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!». Ma quelli discutevano fra loro perché non avevano pane. Si accorse di questo e disse loro: «Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Dodici». «E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Sette». E disse loro: «Non comprendete ancora?».

Cinque domande scatenano la tempesta, che non viene più dal mare ma dalle domande di Gesù. La prima è sulla situazione sulla barca, perché discutete che non avete pane? È una domanda che Gesù fa non solo ai discepoli, ma a ciascuno di noi, “perché state discutendo di questo? Rendetevi conto di quello che state facendo”, porta alla consapevolezza. È interessante che Gesù non li rimprovera, ma chiede. È vero che chiedendo in questo modo li fa andare al dunque, ma di fatto fa prendere consapevolezza a queste persone, e terminerà questo dialogo con una domanda. Gesù non dà le risposte al posto delle persone.

Tra l’altro sanno che un pane ce l’hanno, però non basta, e allora perché discutete? Il pane è la vita, la vita ce l’hai se la dai, perché la vita è amore, se non la dai la perdi, non lo si può possedere, se non la dai la perdi, perché l’amore se non ami l’hai perso. Non capite che questo pane è la vita, e più lo date più lo avete? Gesù fa questa domanda dopo che per due volte i discepoli hanno assistito al segno del pane, anzi, l’hanno distribuito con le loro mani, eppure non capiscono ancora.

Proprio nella vita quotidiana, quei segni d’amore che diamo e riceviamo ci cambiano oppure no? Se non ci cambiano è perché non abbiamo ancora capito! Siamo ancora chiusi, e allora la domanda successiva è avete il cuore indurito? Gesù va subito al dunque, come dire “siete ancora persone che fanno fatica a lasciarsi amare?”. Questo cuore indurito in greco è il “cuore calcificato”, un cuore di pietra, morto, come in realtà è il cuore che non accetta l’amore e non ama.

Ciò che ci impedisce di capire il pane e la vita, così come quello che ci fa cercare il lievito dei farisei e di Erode è la mancanza di amore che abbiamo dentro. Ora la durezza del cuore però non è appannaggio solo dei farisei e degli erodiani, ma si trova in ogni discepolo. Gesù muore in croce per la durezza di cuore dei discepoli, cioè per me, dà la vita per me, ama me, questo si capisce alla fine: sono amato in modo infinito, allora posso amarmi e amare.

È interessante che la causa della morte di Cristo è anche la medicina omeopatica con la quale noi siamo guariti, cioè la durezza del cuore: vederlo che dà la vita per amore mi fa guarire dalla durezza di cuore. E dopo il cuore, avete occhi e non vedete? Avete orecchi e non udite? Queste altre due domande indicano come, se questo cuore è indurito, siamo talmente chiusi che non riusciamo a riconoscere la realtà. È come se quello che hanno appena visto i discepoli non fosse mai arrivato a loro pienamente.

Peraltro si capisce con il cuore, è l’amore che capisce, pertanto se non ami non capisci la realtà, vedi nella realtà la proiezione del tuo io. Se tu sei nell’amore, tutta la realtà assume un altro significato, si guarda la realtà con altri occhi, ma se noi ci chiudiamo alla realtà, questo corrisponde anche a una chiusura del cuore. E vedo sempre l’altro in funzione del mio potere, del mio dominio, cioè del mio egoismo: lo ammazzo, e sono morto anch’io.

Se ricordiamo all’inizio della scena della moltiplicazione lo sguardo di Gesù sulle folle che fa trasparire qual è il suo cuore, qui invece i discepoli si stanno chiudendo, non vedono, non sentono, hanno il cuore indurito: sono persone
morte. Fanno fatica ad accogliere questo pane che non è un pane potente, secondo la logica del mondo, non
assume altre forme per imporsi, va accolto così.

“Avete orecchi e non udite?”: si vede col cuore, ma dipende dalla parola che si ricorda, che c’è dentro al cuore; la parola che tu hai messo nel cuore governa il tuo cuore e in base a quello vedi la realtà. L’importante è allora ascoltare questa parola di amore, e allora cambia davvero il cuore.                                                                                Il rischio dei discepoli, e quindi anche nostro, è che continuiamo come i farisei a chiedere segni; se io non accolgo l’amore continuerò a chiedere dei segni nella misura in cui non mi riconosco amato, viceversa non avrò più bisogno di chiederli, anzi, vedrò ogni cosa come un segno.

L’avere il cuore indurito è il segno della lunga traversata che bisogna fare. E pensare che i discepoli sono i nostri modelli, ma il problema non è quello, e nemmeno la via d’uscita, ma il cammino che dobbiamo fare. E non ricordate, quando spezzai i cinque pani per i cinquemila, quante ceste piene di pezzi levaste? Gli dicono: Dodici! Quando i
sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi levaste? E (gli) dicono: Sette! Sanno bene il catechismo, sanno tutto eppure non capiscono niente: non ci capita a volte di sapere tutto e non capire niente?

Gesù non lascia solo i discepoli nella loro incomprensione, ma indica la via: e non ricordate? Per poter comprendere, Gesù li invita a riportare nel loro cuore quando spezzai i cinque pani. Non ricordi di quanto ti ho voluto bene, di quanto ti è cambiata la vita?

È il ricordo costante, è come fare una litania di ricordi positivi per ricostruire la nostra verità, ciò che noi siamo: il bisogno di essere amati e di amare, e questo è il divino che c’è in tutti, è Dio stesso che è in noi.

(padri gesuiti di Villapizzone)

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