04/11/2021 – S. Carlo Borromeo

Gv 10, 11-15
In quel tempo. Diceva il Signore Gesù ai farisei:

 

«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

 

 

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore».

Questo brano si colloca magistralmente nella liturgia odierna nella quale la Chiesa celebra la memoria liturgica di San Carlo Borromeo. Tutte le letture di oggi sottolineano la figura e le caratteristiche del buon Pastore che guida la sua Chiesa: una metafora dalla comprensione così immediata per i contemporanei di Gesù, un po’ meno calzante per i giorni nostri.

Alcuni particolari mi colpiscono. Gesù parla ai farisei, personaggi che ormai fanno rima con qualcosa di negativo, e, se teniamo presente questo fatto, la dolcissima immagine dipinta dalle parole del maestro assume i toni del rimprovero e dell’accusa: i farisei sono mercenari, poiché il gregge, il popolo, non appartiene loro, e se arriva il pericolo, il lupo – cioè le autorità romane – piantano tutti in asso e se ne vanno per mettere in salvo se stessi!

E per essere sicuro che il messaggio arrivi forte e chiaro, ribadisce il concetto dell’abbandono, della non curanza, che mette le pecore nella condizione di fare una brutta fine: le pecore spariscono, perché il gregge si disperde e loro perdono la propria appartenenza.

Per descrivere se stesso come pastore buono Gesù usa, invece, il piano profondissimo della conoscenza: non è pastore perché ha comprato quel gregge, ma quelle pecore gli appartengono perché il Padre gliele ha affidate, lui le conosce ed esse lo conoscono.
Così il cerchio si chiude, è una dinamica affettiva che si fonda su una relazione, uno sguardo reciproco che fa entrare uno nel cuore dell’altro. Credo che con questa immagine possiamo intuire anche il rapporto d’amore della Trinità,
un’appartenenza vicendevole che fa costituire uno nell’altro, in una dinamica di infinito amore.

Desiderabile, non è vero? Pensate quanto siamo fortunati! Gesù vuole amarci così, e noi possiamo scegliere: essere pecore che amano il proprio pastore e non pecoroni che seguono la massa, secondo le regole del pensiero unico.

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