“In quel tempo, entrato Gesù in Cafàrnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava e diceva: «Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente». Gli disse: «Verrò e lo guarirò». Ma il centurione rispose: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa».”
Ancora una volta l’Evangelo ci racconta degli incontri di Gesù con persone non fanno parte della comunità ebraica e che sono ai margini. É paradossale pensare che Gesù rimane ammirato dall’umiltà del centurione, di questo soldato romano, che chiede aiuto al Gesù.
Innanzitutto chiede aiuto non per sé ma addirittura per il suo servo. Quello che più colpisce é che il centurione si sente indegno, umile, di accogliere il Maestro in casa sua. Gli basta una parola, un piccolo segno. Sembra quasi che il soldato romano riconosca la sua lontananza rispetto al messaggio evangelico di Gesù ma che sia coinvolto.
Gesù ammira in questo soldato la fede a prescindere dal risultato del suo resto. Auspica nelle persone piccoli gesti di conversione.
Ancora una volta Gesù ci fa notare che chi é più vicino alla vita comunitaria rischia di essere superato da chi é fuori dal contesto comunitario proprio in ragione di una fede umile.
Così accade anche con la suocera di Pietro: appena è guarita si mette a servire gli altri. La fede e la testimonianza vanno di pari passo. É questo che fa la differenza. Ma nello stesso tempo conta essere persone umili, piccole, lontane per conquistare la gioia dell’incontro con il Signore.